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Oggi è il giorno dell’orsa Daniza. La Forestale della Provincia di Trento ha messo in rete il filmato in cui si vede la giovane mamma, libera, mentre allatta i suoi due piccoli in Val Rendena. Gli “orsologi” osservano, studiano. È la sesta cucciolata dell’anno, dopo le cinque spiate nell’ultima primavera. Se fossero meno zelanti, gli “orsologi” potrebbero godersi il miracolo di un’orsa che lavora per le due vite appena sgravate senza alcuna preoccupazione e senza nessun altro impiego. C’è da esser contenti solo a guardare tutta quella meraviglia. E invece occorre studiare, cercando in quegli innocui plantigradi le tracce e le speranze di un destino migliore per l’ambiente. Quindi per tutti.

Fa caldo, in pianura. Non c’è verso: è da settimane che va avanti così. Eppure in una città di pianura, un rifugio si trova a dispetto di Minosse, Caronte o dei loro compari. In una miniera, invece, non c’è scampo. Nelle zolfatare siciliane, i carusi lavoravano completamente nudi. Le vecchie foto in bianco e nero, mostrano uomini e ragazzi nudi nelle gallerie, muscoli scolpiti dalla fatica e asciugati dalla fame e dai grassi trasudati a forza di spingere carrelli su rotaie a scartamento ridotto e di picconare la vena minerale sotto volte insicure di travi.
Le miniere: sembra roba d’altri tempi. E le lotte di Étienne Lantier in “Germinal” di Émile Zola sembrano travagli di due secoli fa. Invece no.

Proprio in queste ore sta per concludersi a Madrid la “marcha negra” dei minatori spagnoli delle Asturie e dell’Aragona. La protesta è cominciata il 23 maggio scorso, quando il governo conservatore di Mariano Rajoy ha deciso di tagliare il 63% di aiuti al settore. Dalle miniere delle Asturie e dell’Aragona si estrae carbone fossile, unica risorsa energetica autoctona della Spagna. Tradotto in altri termini, il taglio degli aiuti equivale alla morte occupazionale, per licenziamento, di circa quattordicimila persone. In diciannove sono stati arrestati, finora.
I minatori si sono messi in marcia verso Madrid attraversando paesi e valli, fiumi e autostrade, hanno raccolto la simpatia e la solidarietà di migliaia di spagnoli e in queste ore sono attesi nella Capitale. Dovrebbero essere almeno 20mila, entro stasera, a protestare davanti alla Moncloa, sede del governo di Madrid.
Va detto che il carbone fossile non è certo un combustibile ecologico: è causa, anzi, di forte inquinamento. Questo argomento meriterebbe di essere considerato con un certo interesse in questa vicenda, se non fosse che le centrali a carbone in esercizio non saranno chiuse né convertite: il combustibile, semplicemente, arriverà più convenientemente dalla Cina o da qualche altro lontano posto in grado di garantire un risparmio evidente. Eppure il settore è stato profondamente ridimensionato negli ultimi anni: nel 1990 gli addetti diretti erano quarantacinquemila; oggi sono circa quattromila (di cui più della metà dipendenti di una società pubblica) ai quali vanno aggiunti i lavoratori dell’indotto per un totale stimato di circa quattordicimila persone.
Ma la “marcha negra” è interessante per varie ragioni e non per caso raccoglie la simpatia di milioni di spagnoli. Ai lavoratori del carbone, ogni operaio spagnolo deve infatti il diritto alla giusta retribuzione, alla rappresentanza sindacale, alla sicurezza sul lavoro. Il primo grande sciopero sotto il regime fascista di Francisco Franco fu proclamato e animato proprio dai minatori. Era il 1962 e scioperare non era affatto un diritto. A tutto ciò va aggiunto – altrimenti sarebbero solo esercizi d’affetto – il fatto che in questa protesta gli spagnoli vedono il simbolo di un dilagante scontento, il pericolo di un futuro austero, il fantasma della grecizzazione.



Lavorare in miniera in condizioni estreme non è mai stato semplice. Se oggi migliaia di persone protestano per conservare un lavoro estremamente pericoloso come questo, significa che la loro lotta non è una vertenza sindacale come tante altre, non è un atto di resistenza al capitalismo sfrenato, non è sintomo di riluttanza verso le imposizioni della grande finanza, non è nemmeno opposizione alla globalizzazione e altre cose del genere. No, non può essere solo questo. È, piuttosto, il segno che il lavoro non è più né un diritto né uno strumento di emancipazione e di progresso, non è più liberazione: è, al contrario, una nuova forma di schiavitù. Schiavitù dolce, dolce come la doma gentile alla quale vengono sottoposti i cavalli. Persino con la prospettiva della liberazione dal lavoro, il lavoratore salariato anela a conservare il posto in miniera; sarebbe altrimenti emarginato socialmente, ridurrebbe i consumi, perderebbe una parte di cittadinanza. Espulso: dal mondo del lavoro, dalla società, dai benefici connessi a un contratto di lavoro, da una pensione futura. Una condanna insopportabile.
Eppure i sintomi di questa trasformazione del lavoro non sono recenti né inattesi. Ha scritto Pëtr Kropotkin (1842-1921): «La divisione del lavoro è l’uomo classificato, bollato, contrassegnato per tutta la sua vita, a far dei nodi in una manifattura o come sorvegliante in qualche industria, o come conduttore di una carriola nel tal sito della miniera, ma senza avere alcun’idea di insieme di macchina, d’industria, di miniera, e perdendo per ciò stesso il gusto del lavoro e la capacità d’invenzione che, ai principii dell’industria moderna, avevano creato i meccanismi di cui a noi piace tanto vantarci con orgoglio.»

La lotta dei minatori delle Asturie e dell’Aragona è una lotta per la vita. Lo ha testimoniato anche qualche giorno fa lo scrittore Luis Sepulveda in un articolo pubblicato ieri su Repubblica: «Quegli uomini che ora vedo marciare in superficie, attraversare le valli per unirsi ad altri minatori, e qualche giorno dopo ad altri ancora, fino a diventare centinaia, mettendo in ordine le parole nelle proprie bocche, dicono che la loro lotta è per il pane, per il lavoro, per la vita. I minatori vengono accolti dalla gente nei paesi che attraversano. “Coraggio, compagni!” li salutano e offrono acqua, pane, qualche mela ribelle e resistente cresciuta in un frutteto asturiano. I minatori si riposano e le parole e io ci sediamo vicino a loro, perché la loro stanchezza è la nostra, la loro fatica è la nostra, il loro coraggio è il nostro e la loro volontà di resistere è il nostro ossigeno.»

Oggi è il giorno dell’orsa Daniza. E della lotta per la vita.

Aveva mani bellissime da pianista e capelli fulvi da profumiere, l’ungherese Sandor Korda. Nei primi anni ’30 vinse il primo premio come miglior pianista al Conservatorio della sua città, Budapest. Ma la sua speranza per l’umanità ne fece presto un esule. A Parigi si innamorò della figlia di un ricco fabbricante di pneumatici, il signor Roche. E lei, Claudine, amava lui. “Credo di amarti – gli disse un giorno – perché tu rappresenti quel mondo che io inconsciamente sento e non conosco”. Due mesi dopo il loro primo incontro, Sandor fu presentato ai coniugi Roche. “Quel giovane – disse più tardi la signora Roche – era un cuore duro e aveva idee tutte sue sulla filantropia e sul popolo bisognoso”. Per il signor signor Roche, quella specie di giovane esaltato, un po’ pianista, un po’ letterato e molto anarchico, non capiva niente dell’industria in genere e della gomma in particolare: quasi impossibile, dunque, trovargli un posto onorevole nell’azienda ed estremamente pericoloso affidare a mani così poco esperte l’ingente dote di Claudine.
Sandor e Claudine fuggirono in Camargue e, poco dopo, migliaia di giovani, speranzosi come Sandor, partirono da tutta Europa per la Spagna per combattere contro Francisco Franco. Così quella fuga felice in Camargue cominciò a sembrare, per il pianista, una specie di diserzione. Sandor decise di partire e Claudine era intenzionata a seguire il suo amore. Ma la famiglia Roche fece pesare tutta la sua influenza per impedire alla figliola di oltrepassare la frontiera; la spedì, piuttosto, in America per avviarla alla carriera di attrice a Hollywood.
E Sandor… Sandor diventò ufficiale, inquadrato nel battaglione “Royo y Negro” dell’Esercito Repubblicano. E combatteva con coraggio.
Una volta, verso il crepuscolo, i suoi soldati gli portarono un prigioniero, una specie di pastore avvolto in un mantello sdrucito con un cappellaccio calato sopra la fronte. Ma quando il mantello fu strappato, apparve una uniforme di maggiore della fanteria franchista. Sandor diede così disposizione di inviare il prigioniero al comando di brigata e gli offrì da bere e da mangiare. Il maggiore rifiutò con disprezzo, guardò l’ungherese come si guarda un essere basso e vile e chiese: “Quanti chilometri da qui al Comando?” “Nove”, rispose Sandor. “Voglio un cavallo, allora. Sono un ufficiale superiore e non vado a piedi”. “Qui non ci sono cavalli e voi non siete un maggiore, siete soltanto un prigioniero ribelle”. Il maggiore, livido d’odio, guardò Sandor e gli sputò sul viso. Sandor lo fulminò con una palla nel cranio.
Durante una battaglia, a Codos, Sandor organizzò una estrema difesa della città: i carri armati franchisti avanzavano e lui, con un pugno di uomini, affrontò con il petto le corazze di acciaio. Lanciava la sue granate, Sandor. Una fece impennare un carro, ma l’esplosione fu così forte da ferire anche Sandor. E il carro che seguiva il mezzo distrutto passò coi cingoli sul corpo del pianista di Budapest, un uomo con mani bellissime adatte a suonare il pianoforte e fulvi capelli, giusti per le réclame in bianco e nero dei profumi francesi.
Quel che restava di quella vita fu recuperato a sera da due donne, la vecchia Asuncion e sua figlia Maria. Sandor fu seppellito alla periferia della città, sopra una piccola altura ombreggiata dai frassini.
Era il 1937 e il signor Mussolini mandava i suoi aerei a bombardare tutta quella umanità speranzosa.

Le informazioni sulla vita di Sandor Korda le ho trovate in “Il maggiore è un rosso” di Francesco Fausto Nitti (Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1955), nella copia del professor Francesco Paolo Giacobbe.

Una immagine della battaglia dell'Ebro

Una immagine della battaglia dell’Ebro

Giuseppe Lagonigro nacque nella città di Foggia il 29 agosto del 1915, figlio di Pellegrino e di Maria Fatigato. Studiò da infermiere ma esercitò per poco tempo perché nel 1935 fu chiamato alle armi. Due anni più tardi entrò a far parte del Corpo Truppe Volontarie, il corpo di spedizione composto in gran parte da volontari inviato in Spagna da Benito Mussolini a supporto di Francisco Franco nella Guerra civile spagnola. Col grado di caporale legionario, Giuseppe Lagonigro combatté coi fascisti nella battaglia di Guadalajara (8-23 marzo 1937). A Guadalajara si fronteggiarono da una parte i franchisti al comando di José Moscardó Ituarte e i fascisti italiani del Corpo Truppe Volontarie del generale Mario Roatta e, dall’altra, i repubblicani antifascisti al comando del generale Enrique Jurado e, tra gli altri, dell’anarcosindacalista Cipriano Mera, del comunista italiano Nino Nanetti e di Ilio Barontini, ferroviere comunista che proprio a Guadalajara assunse, in seguito al ferimento di Randolfo Pacciardi, il comando del Battaglione Garibaldi delle Brigate Internazionali. Fu una battaglia importante: la vinsero i repubblicani, bloccando così la marcia dei franchisti verso Madrid.
Giuseppe Lagonigro, fatto prigioniero dal Battaglione Garibaldi, chiese e ottenne di far parte del Garibaldi, nelle cui fila combatté durante la battaglia dell’Ebro (luglio-novembre 1938), rimanendo ferito alla fine di luglio del ’38. Dopo la “Retirada” fu internato nel campo di concentramento francese di Gurs. Poi si arruolò nell’Esercito Francese.

CASELLARIO POLITICO CENTRALE
Unità archivistica – Busta 2695 – Denominazione: Lagonigro Giuseppe – Estremi cronologici: 1938-1942 – Nel fascicolo è presente: scheda biografica.
Informazioni personali
Data di nascita: 1915 – Luogo di nascita: Foggia – Luogo di residenza: Spagna – Colore politico: comunista – Condizione/mestiere/professione: infermiere – Annotazioni riportate sul fascicolo: iscritto alla Rubrica di frontiera – Codice identificativo: L00376