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Su un lercio treno Intercity, il numero 705, in forte ritardo per il deragliamento a San Biagio di un convoglio merci carico di tronchi e tavolacci, due bambine cantano Mameli. Una delle due agita un ventaglio cinese. Glielo ha regalato Silvana: questo dice all’altra in una pausa di quell’esercizio canoro di indisturbato patriottismo. All’altra non importa: la invidia e basta. E così riprendono a cantare masticando caramelle molli alla frutta, si passano il ventaglio cinese e sventagliano, sventagliano, sventagliano. E vanno. Arriveranno in ritardo – a Taranto per la precisione – in compagnia dei fratelli d’Italia e dell’Italia che s’è desta un bel po’ di anni fa.
C’è una singolarità riguardo al viaggiare dei piccoli: fanno fatica a capire il mistero del ritardo. Al massimo si annoiano e questo prescinde dalla puntualità. Ma c’è anche un’altra particolarità nei bambini: ignorano del tutto quelle preoccupazioni che i grandi chiamano crisi economica, recessione, debito pubblico, crescita, sviluppo, inflazione, scadimento, decadenza e cose di questo genere. Queste parole, per loro rappresentano un mistero ancor più incomprensibile del ritardo dei treni.
Tutti gli altri no; tutti gli altri passeggeri del 705 conoscono bene gli effetti di quelle strane parole e ne sono preoccupati. Questo è un treno pieno di gente che torna a casa dal lavoro o per passare la fine della settimana in dimore meno provvisorie di quelle prese in affitto nella grande città, abitate solo per rinfrancarsi a sera. Sono lavoratori e lavoratrici, studenti e studentesse. Dormono o sono impegnati in faccende riservate come guardare il telefono, leggere un libro o un giornale, manovrare con un pc.
C’è la crisi. E c’è anche la décadence. Solo che la crisi si può superare pagando o, come dice l’autorità, facendo i sacrifici a volte pesantissimi e intollerabili. La decadenza no: non è così semplice trovare una soluzione. Perché è impalpabile, è una specie di tristezza, è una forma di povertà.
Le bambine nel treno cantano Mameli e non sanno perché. E continuano a ignorare il ritardo: il rallentamento diventerà solo un’aggravante della stanchezza una volta superata la città di Bari o poco dopo, oltre Gioia. Tutto il resto dell’umanità di questo vagone è inutilmente affaccendato. I treni, le navi, gli autobus e gli aerei portano a spasso la decadenza che gli uomini hanno addosso.
La decadenza è come questo treno. Fa puzza, fa nero sui gomiti. Le scarpe sui sedili, i poggiatesta fatti di grasso, il puzzo del wc trascurato, la carta igienica lasciata nel lavamano e gonfia di acqua non potabile, le lucette rosse e verdi dei quadri elettrici posti a presidio del passaggio tra un vagone e l’altro: segni di un regresso, di un disfacimento.
In questi treni ci si presenta già stanchi al mattino quando si è ancora fantasmi quieti dopo la notte. Ci si trascina con gli affanni dei giorni e senza niente tra le mani. Si impreca per il ritardo. Ma il ritardo è un gravame solo per chi lo avverte come tale. Eppure il treno va. Solo le due bimbe non sanno niente di tutto questo. Cantano Mameli e il loro mondo gira bene così com’è. È giusto così.
E noi adulti, ubriachi di cazzate e di problemi da affrontare e risolvere, non possiamo capire che il ritardo è solo l’effetto di un cambio di passo, uno scostamento di obiettivo, una conclusione dei fatti che arriva in tempi diversi rispetto alle intenzioni o alle previsioni. Tutto qua.

Nessuna incertezza mai più
In nome del cielo davvero mai più
Qui serve un segno di rispetto per la gente
In questa bassa marea
Serve un lampo nell’aria che si accenda
Oppure un’idea
C’est la décadence
C’est la décadence

Ivano Fossati, “La decadenza” in “Decadancing”, 2011

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Le foto sono… mie – San Biagio-Caserta, 2012